Ci siamo lamentati troppo, e troppo spesso, che i talk show politici si stessero trasformando in una gazzarra da cortile, dove esponenti più o meno significativi dei vari schieramenti si davano sulla voce, facendo valere il principio della voce alta a quella della parola densa. Se la sono legata al dito, e hanno deciso di non parlarsi più in tv (a giudicare dall’andazzo istituzionale, nemmeno nei luoghi preposti…). Il dibattito e il confronto tra politici è praticamente scomparso. Fuga all’inglese dai faccia a faccia, anche in prossimità degli appuntamenti elettorali: è bastata una reciproca, infastidita, impuntatura (l’altro non è mai abbastanza rappresentativo, degno, sincero…) e il meccanismo rituale più importante della politica pop internazionale (il successo degli outsider Trump e Macron passa anche di là) è stato semplicemente archiviato. I nuovi protagonisti della res pubblica si aprono a tu per tu nel salotto di Barbara D’Urso (cosa serve ancora per incoronarla Oprah Winfrey de noartri?), impongono di non condividere lo spazio televisivo con l’avversario, telefonano in diretta a Fazio per esercitare il proprio storytelling. Rigorosamente a solo, o in assolo. Allo scontro rimangono i luogotenenti, i soldati semplici, gli ex, carne da cannone per la lotta nel fango. Non è necessariamente un male: l’interlocuzione tra un giornalista e un politico di norma dimezza la densità di sproloquio vano dell’equivalente tra due politici. Migliora lo spettacolo ma si anestetizza il confronto, e di fact checking non se ne parla (già così non vengono in due, il terrore è che non vengano nemmeno sa soli). La deriva del contatto esclusivo con la massa (che è sempre più quella dei social network) ha ridotto la comunicazione politica al solipsismo, al monologo. Nell’illusione che si possa parlare a tutti (con un post, un tweet, una foto) la politica ha dimenticato il dialogo.
